Il medium-cinema viene studiato, nel saggio in oggetto, quale esempio tipico di esperienza mediatica che, a partire da una tendenza “di base” che la fa coincidere con la pura evasione dalla quotidianità, si è evoluta nel corso dei decenni fino a divenire un laboratorio di riflessione collettiva sulla condizione umana e sulla "reinvenzione del quotidiano"; ciò per parafrasare il titolo di un classico di Michel de Certeau (L’invention du quotidien, 1990) le cui intuizioni anticipavano le più recenti “tattiche” del dialogo narrazione-fruizione. Per analizzare tale costante evoluzione, il saggio prende in esame i primi dieci anni di uso - nell'ambito della rappresentazione cinematografica - delle immagini infografiche: generate dal computer. Non essendo riproduzione di oggetti del mondo conosciuto, le immagini digitali fuoriescono dal regime del "simulacro" per entrare il quello della "simulazione", generano altresì, al loro primo apparire, forme e paesaggi che, per novità e attrattiva, si sostituiscono del tutto all’esistente, trasportando il fruitore-spettatore in un mondo totalmente “alternativo” rispetto alla sua esperienza della quotidianità. Trasportano cioè lo spettatore in un "luna-park" dello sguardo. L'effetto luna-park si può ben esemplificare - in queste righe di abstract - con il trittico filmico di "Jurassic Park", diretto/prodotto da Steven Spielberg, e consiste nel mettere tutte le possibilità tecniche dell'immagine al servizio dell'onnipotenza del vedere. Il saggio in oggetto va tuttavia ad analizzare una serie di casi in cui l’immagine digitale mostra una seconda faccia, una seconda tendenza che consiste precisamente nella ricerca di nuove aperture semantiche sulla realtà. Sembra che le immagini di sintesi, che per definizione non hanno un referente visibile nel mondo conosciuto, possano proprio per questo dare luogo al disvelamento di forze invisibili. C’è un caso, in particolare, che vede interagire l’uso della tecnologia digitale con la pittura, ovvero con un ben più antico e “accreditato” strumento di rivelazione dell’invisibile. Il regista giapponese Akira Kurosawa, in Corvi, il quinto degli episodi che compongono il suo film Sogni, dava luogo nel 1990 a uno dei primi esperimenti di uso esplicito del computer sull’immagine cinematografica, e lo faceva prendendo a oggetto della propria narrazione la pittura di Van Gogh. Il turista-spettatore messo sulla scena da Kurosawa cammina nei quadri di Van Gogh, quei quadri che sono tutt’oggi fra i migliori emblemi della possibilità di esporci all’invisibile attraverso la percezione del “mondo visibile”. E in Van Gogh l’invisibile, come spiega bene Ernst Gombrich, è il sentimento di cui parlano volta a volta le sue tele: «Le pennellate di Van Gogh ci dicono qualcosa del suo stato d’animo. Nessun artista prima di lui si era valso di questo mezzo con tanta coerenza e tanta efficacia. […] È chiaro che la sua principale preoccupazione non era la rappresentazione esatta. Usava forme e colori per esprimere ciò che sentiva nelle cose che andava man mano dipingendo e ciò che voleva comunicare agli altri. […] Sarebbe perfino arrivato a forzare e mutare l’aspetto delle cose, se questo avesse potuto aiutarlo nel suo scopo. Così, per diversa strada, era arrivato a un bivio simile a quello in qui si era trovato [negli stessi anni] Cézanne. Entrambi fecero il passo decisivo abbandonando il proposito di “imitare la natura”. […] Van Gogh voleva che la sua pittura esprimesse ciò che egli sentiva, e se la deformazione poteva aiutarlo a raggiungere lo scopo, avrebbe usato la deformazione» (The Story of Art, 1950). La manipolabilità delle forme digitali, nel suo incontro con quella “deformabilità dell’imitazione” inaugurata cento anni prima da Vincent Van Gogh, è un buon emblema delle potenzialità più preziose fra quelle offerte dalle nuove tecnologie dell’immagine. Ed è un esempio, soprattutto, di quella possibilità di attivazione dei sentimenti che costituisce, oggi, la vera occasione da non perdere per il sistema dei media e per le sue tecniche di rappresentazione. È un’occasione colta al volo, per fare un altro esempio, dai “quadri” con cui si aprono i diversi capitoli del film Le onde del destino, che nel 1996 portò alla notorietà internazionale il regista danese Lars von Trier. Sono immagini quasi fisse, sguardi panoramici sui luoghi che fanno da tappe alla storia narrata nel film. Si tratta di paesaggi rielaborati al computer con una tecnica coloristica che ha – in comune con il “metodo Van Gogh” e con la protagonista stessa del film – la capacità di immergersi nel mondo e insieme di trascenderlo, per restarne al contempo impauriti ed estasiati. Ma vi sono anche film hollywoodiani di successo planetario a offrire esempi altrettanto validi. Ci limitiamo, in queste righe, a citare solo il pluripremiato Titanic (1997) del regista James Cameron: vi troviamo uno dei più completi casi di organizzazione degli effetti digitali intorno a una sola forza emotiva che percorre l’intero film. Assai più che la storia di un grande naufragio, visibilmente, il film Titanic è infatti una storia d’amore. Diremo di più: in metafora è proprio la passione ad aprire la «breccia esistenziale» che manderà in pezzi il grande transatlantico, ovvero la rappresentazione, in vitro, della buona società che la protagonista-narratrice ha bisogno di mettere in discussione fin dall’inizio della storia. "Titanic" è solo uno degli esempi che ci mostrano quale sia, oggi, la grande opportunità delle nuove tecnologie dell'immagine così come dell'intero sistema dei media: è l'espressione dei sentimenti dell'animo umano. Si tratta di forze invisibili. A un primo sguardo non hanno referenti nel mondo visibile. Ma possono essere portati alla visibilità grazie alla destrutturazione dell'immagine convenzionale delle cose. Grazie alla creazione di nuove immagini, che compiano un'apertura semantica del mondo: anziché una sua chiusura.

Cinema e simulazione: percorsi e paradossi

LANDO, Arturo
2007-01-01

Abstract

Il medium-cinema viene studiato, nel saggio in oggetto, quale esempio tipico di esperienza mediatica che, a partire da una tendenza “di base” che la fa coincidere con la pura evasione dalla quotidianità, si è evoluta nel corso dei decenni fino a divenire un laboratorio di riflessione collettiva sulla condizione umana e sulla "reinvenzione del quotidiano"; ciò per parafrasare il titolo di un classico di Michel de Certeau (L’invention du quotidien, 1990) le cui intuizioni anticipavano le più recenti “tattiche” del dialogo narrazione-fruizione. Per analizzare tale costante evoluzione, il saggio prende in esame i primi dieci anni di uso - nell'ambito della rappresentazione cinematografica - delle immagini infografiche: generate dal computer. Non essendo riproduzione di oggetti del mondo conosciuto, le immagini digitali fuoriescono dal regime del "simulacro" per entrare il quello della "simulazione", generano altresì, al loro primo apparire, forme e paesaggi che, per novità e attrattiva, si sostituiscono del tutto all’esistente, trasportando il fruitore-spettatore in un mondo totalmente “alternativo” rispetto alla sua esperienza della quotidianità. Trasportano cioè lo spettatore in un "luna-park" dello sguardo. L'effetto luna-park si può ben esemplificare - in queste righe di abstract - con il trittico filmico di "Jurassic Park", diretto/prodotto da Steven Spielberg, e consiste nel mettere tutte le possibilità tecniche dell'immagine al servizio dell'onnipotenza del vedere. Il saggio in oggetto va tuttavia ad analizzare una serie di casi in cui l’immagine digitale mostra una seconda faccia, una seconda tendenza che consiste precisamente nella ricerca di nuove aperture semantiche sulla realtà. Sembra che le immagini di sintesi, che per definizione non hanno un referente visibile nel mondo conosciuto, possano proprio per questo dare luogo al disvelamento di forze invisibili. C’è un caso, in particolare, che vede interagire l’uso della tecnologia digitale con la pittura, ovvero con un ben più antico e “accreditato” strumento di rivelazione dell’invisibile. Il regista giapponese Akira Kurosawa, in Corvi, il quinto degli episodi che compongono il suo film Sogni, dava luogo nel 1990 a uno dei primi esperimenti di uso esplicito del computer sull’immagine cinematografica, e lo faceva prendendo a oggetto della propria narrazione la pittura di Van Gogh. Il turista-spettatore messo sulla scena da Kurosawa cammina nei quadri di Van Gogh, quei quadri che sono tutt’oggi fra i migliori emblemi della possibilità di esporci all’invisibile attraverso la percezione del “mondo visibile”. E in Van Gogh l’invisibile, come spiega bene Ernst Gombrich, è il sentimento di cui parlano volta a volta le sue tele: «Le pennellate di Van Gogh ci dicono qualcosa del suo stato d’animo. Nessun artista prima di lui si era valso di questo mezzo con tanta coerenza e tanta efficacia. […] È chiaro che la sua principale preoccupazione non era la rappresentazione esatta. Usava forme e colori per esprimere ciò che sentiva nelle cose che andava man mano dipingendo e ciò che voleva comunicare agli altri. […] Sarebbe perfino arrivato a forzare e mutare l’aspetto delle cose, se questo avesse potuto aiutarlo nel suo scopo. Così, per diversa strada, era arrivato a un bivio simile a quello in qui si era trovato [negli stessi anni] Cézanne. Entrambi fecero il passo decisivo abbandonando il proposito di “imitare la natura”. […] Van Gogh voleva che la sua pittura esprimesse ciò che egli sentiva, e se la deformazione poteva aiutarlo a raggiungere lo scopo, avrebbe usato la deformazione» (The Story of Art, 1950). La manipolabilità delle forme digitali, nel suo incontro con quella “deformabilità dell’imitazione” inaugurata cento anni prima da Vincent Van Gogh, è un buon emblema delle potenzialità più preziose fra quelle offerte dalle nuove tecnologie dell’immagine. Ed è un esempio, soprattutto, di quella possibilità di attivazione dei sentimenti che costituisce, oggi, la vera occasione da non perdere per il sistema dei media e per le sue tecniche di rappresentazione. È un’occasione colta al volo, per fare un altro esempio, dai “quadri” con cui si aprono i diversi capitoli del film Le onde del destino, che nel 1996 portò alla notorietà internazionale il regista danese Lars von Trier. Sono immagini quasi fisse, sguardi panoramici sui luoghi che fanno da tappe alla storia narrata nel film. Si tratta di paesaggi rielaborati al computer con una tecnica coloristica che ha – in comune con il “metodo Van Gogh” e con la protagonista stessa del film – la capacità di immergersi nel mondo e insieme di trascenderlo, per restarne al contempo impauriti ed estasiati. Ma vi sono anche film hollywoodiani di successo planetario a offrire esempi altrettanto validi. Ci limitiamo, in queste righe, a citare solo il pluripremiato Titanic (1997) del regista James Cameron: vi troviamo uno dei più completi casi di organizzazione degli effetti digitali intorno a una sola forza emotiva che percorre l’intero film. Assai più che la storia di un grande naufragio, visibilmente, il film Titanic è infatti una storia d’amore. Diremo di più: in metafora è proprio la passione ad aprire la «breccia esistenziale» che manderà in pezzi il grande transatlantico, ovvero la rappresentazione, in vitro, della buona società che la protagonista-narratrice ha bisogno di mettere in discussione fin dall’inizio della storia. "Titanic" è solo uno degli esempi che ci mostrano quale sia, oggi, la grande opportunità delle nuove tecnologie dell'immagine così come dell'intero sistema dei media: è l'espressione dei sentimenti dell'animo umano. Si tratta di forze invisibili. A un primo sguardo non hanno referenti nel mondo visibile. Ma possono essere portati alla visibilità grazie alla destrutturazione dell'immagine convenzionale delle cose. Grazie alla creazione di nuove immagini, che compiano un'apertura semantica del mondo: anziché una sua chiusura.
2007
978-88-89480-28-1
cinema
simulacro
simulacrum
simulazione
simulation
modi di sentire
feelings
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.12570/21315
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