Il saggio indaga il valore attribuito al termine illusione dagli illuministi lombardi attraverso le occorrenze del vocabolo sulle pagine del «Caffè», diretto da Pietro Verri tra il giugno 1764 e il maggio 1766, e redatto, per gran parte, dai giovani sodali che si raccolsero nell’Accademia dei Pugni. Il lemma illusione, usato in riferimento alla rappresentazione teatrale e introdotto da quell’attributo dolce che un ventennio dopo tornerà ad usare Madame de Staël, è proposto in una accezione sostanzialmente diversa rispetto a quella negativa di inganno, attribuitagli dai cruscanti; nella risemantizzazione degli intellettuali del «Caffè» esso diventa «quel dolce incantesimo operato dall’arte ai nostri sensi», quella magia che sola genera il piacere dell’arte, sollecitando le sensazioni. La scelta semantica rivela la volontà dei «caffettisti» di guardare a un lessico europeo: se infatti il termine nell’accezione proposta dai pedanti si allineava al significato del vocabolario della Crusca, quella impiegata, in voluta contrapposizione, dal Verri respira certamente l’aria dell’Enciclopédie. Insomma sembra che vi sia una precisa volontà di impiegare la parola secondo le indicazioni offerte dai trattatisti francesi, in opposizione alla coincidenza tra illusione e inganno professata dai pedanti. Tale ipotesi è confortata dall’accezione con la quale viene usato il vocabolo negli scritti dedicati alla commedia contemporanea: non sono le spettacolari scenografie a garantire l’inganno, ma è la loro assenza a consentire il trionfo di un’illusione che non ha la finalità di stupire gli spettatori, quanto piuttosto quella di immedesimarli nella rappresentazione, affinché possano trarne giovamento. Si tratta di una teoria dell’illusione nata all’ombra delle tesi estetiche degli illuministi francesi che avevano modificato il valore teatrale da apparenza a similitudine, da parvenza a rassomiglianza, secondo una prioritaria volontà di verosimiglianza. Un puntuale raffronto con l’uso del vocabolo nei trattatisti francesi settecenteschi in particolar modo nel “Discours sur la poésie drammatique” (1758) di Diderot e nella ”Poétique françoise” (1763) di Jean-François Marmontel rafforza questa convinzione. Il saggio si chiude con l’analisi della cartella numero 15 dell’ dell’Archivio privato di Sua Eccellenza il Sig.r Conte Pietro Verri intitolata alle “Illusioni optiche teatrali”.

Illusione e disillusione teatrale nell’illuminismo lombardo

BUFACCHI, EMANUELA
2006-01-01

Abstract

Il saggio indaga il valore attribuito al termine illusione dagli illuministi lombardi attraverso le occorrenze del vocabolo sulle pagine del «Caffè», diretto da Pietro Verri tra il giugno 1764 e il maggio 1766, e redatto, per gran parte, dai giovani sodali che si raccolsero nell’Accademia dei Pugni. Il lemma illusione, usato in riferimento alla rappresentazione teatrale e introdotto da quell’attributo dolce che un ventennio dopo tornerà ad usare Madame de Staël, è proposto in una accezione sostanzialmente diversa rispetto a quella negativa di inganno, attribuitagli dai cruscanti; nella risemantizzazione degli intellettuali del «Caffè» esso diventa «quel dolce incantesimo operato dall’arte ai nostri sensi», quella magia che sola genera il piacere dell’arte, sollecitando le sensazioni. La scelta semantica rivela la volontà dei «caffettisti» di guardare a un lessico europeo: se infatti il termine nell’accezione proposta dai pedanti si allineava al significato del vocabolario della Crusca, quella impiegata, in voluta contrapposizione, dal Verri respira certamente l’aria dell’Enciclopédie. Insomma sembra che vi sia una precisa volontà di impiegare la parola secondo le indicazioni offerte dai trattatisti francesi, in opposizione alla coincidenza tra illusione e inganno professata dai pedanti. Tale ipotesi è confortata dall’accezione con la quale viene usato il vocabolo negli scritti dedicati alla commedia contemporanea: non sono le spettacolari scenografie a garantire l’inganno, ma è la loro assenza a consentire il trionfo di un’illusione che non ha la finalità di stupire gli spettatori, quanto piuttosto quella di immedesimarli nella rappresentazione, affinché possano trarne giovamento. Si tratta di una teoria dell’illusione nata all’ombra delle tesi estetiche degli illuministi francesi che avevano modificato il valore teatrale da apparenza a similitudine, da parvenza a rassomiglianza, secondo una prioritaria volontà di verosimiglianza. Un puntuale raffronto con l’uso del vocabolo nei trattatisti francesi settecenteschi in particolar modo nel “Discours sur la poésie drammatique” (1758) di Diderot e nella ”Poétique françoise” (1763) di Jean-François Marmontel rafforza questa convinzione. Il saggio si chiude con l’analisi della cartella numero 15 dell’ dell’Archivio privato di Sua Eccellenza il Sig.r Conte Pietro Verri intitolata alle “Illusioni optiche teatrali”.
2006
88-714-6691-8
Illuminismo lombardo, Riviste letterarie del XVIII secolo, Lessico letterario, Critica letteraria, Teorie sul teatro, Fonti di archivio
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.12570/3231
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